Capitolo 1

La Valle Varaita e Sampeyre, notizie storiche.


La Valle Varaita, divisa in due bracci che, correndo quasi parallelamente, vanno a riunirsi nella zona di Casteldelfino, viene anche indicata come la "Valle Smeraldina".
Questo appellativo le deriva dalla lussureggiante e rigogliosa vegetazione che la ricopre per circa sessanta chilometri.
Essa confina a sud con la Valle Maira, a nord con la Valle Po, ad ovest con la Valle del Guil e la zona del Queyras appartenenti al dipartimento francese delle Hautes-Alpes, è sovrastata dal Monviso (3841 m.) e dal monte Pelvo (3064 m.).
Il resto della Valle, da Casteldelfino e Sampeyre sino allo sbocco nella pianura saluzzese, si presenta con aspetti alpini meno aspri.
Le notizie di cui disponiamo circa le origini del popolamento in Val Varaita sono provvisorie e limitate.
I reperti archeologici sono insufficienti: i ritrovamenti [1] furono quasi sempre casuali e, quando non andarono distrutti, furono, nella maggior parte dei casi, dispersi.
Sotto questo profilo, la documentazione sulle origini del popolamento è ancor più carente in Val Varaita che nelle altre valli alpine.
La mancanza di fonti dirette impone il ricorso ad una diversa metodologia.
La toponomastica prova l'antichità del popolamento ma raramente permette interpretazioni univoche; tuttavia la concentrazione e la diffusione dei toponimi prelatini, autorizzano qualche conclusione circa l'antropizzazione della valle.
Chiaramente prelatino è, ad esempio, il termine Varaita: è un toponimo che richiama ad una radice "var" la quale avrebbe significato dapprima "roccia" e poi, per comprensibile estensione, "corso d'acqua che scorre fra le rocce".
La frequenza dei toponimi prelatini giustifica tuttavia una conclusione: l'occupazione romana della valle dovette trovare una regione già perfettamente organizzata secondo modalità molto simili alle attuali.
Anche per la Val Varaita sembra insomma confermata l'ipotesi, avanzata da tanti studiosi a proposito di altre valli delle Alpi Occidentali, secondo la quale gruppi di cacciatori-raccoglitori avrebbero aperto la via a tribù dedite alla caccia e alla pastorizia e, più tardi, all'agricoltura.
Soltanto con la fase agricola, l'occupazione, ad opera dei Liguri Montani, del territorio sarebbe diventata stabile [2].
Fino a quel momento la presenza umana in valle doveva limitarsi alla provvisorietà di una permanenza estiva.
I Romani, trovarono dunque un territorio organizzato secondo modalità simili alle attuali, un aprico già disboscato, un fondovalle già in parte dissodato.
Ma neanche le tracce della presenza romana sono rilevanti [3].
Una cosa è certa: la colonizzazione della valle ad opera dei romani fu superficiale. Diede vita ad una realtà amministrativa che lasciava sopravvivere - ancora per qualche tempo - il vecchio fondo culturale, ed a un'organizzazione politica cui non interessava la capillare occupazione del territorio.
Piasco fu, con Avigliana e Borgo S. Dalmazzo, un importante ufficio doganale dove funzionari romani esigevano la "quadragesima Galliarum" e cioè la quarantesima parte del valore delle merci in transito.
La successiva diffusione del cristianesimo è avvolta nella leggenda: ne sono protagonisti i soldati della Legione Tebea, diventati martiri per la fede e ricordati ancora oggi nei titoli delle cappelle e nei popolari affreschi dei piloni votivi.
Dopo il secolo delle incursioni saracene, prende consistenza l'organizzazione feudale.
Nel 998 la Valle Varaita (con la Valle Stura) è assegnata dall'Imperatore Ottone III alla chiesa di Torino [4] che attraverso la pieve di Falicetto controllava la valle e la Chiesa di Manta.
La donazione venne successivamente confermata da Federico Barbarossa al vescovo Carlo nel 1159.
Con tale atto l'imperatore intendeva forse porre le premesse per la ripresa di questo territorio dopo le incursioni saracene e per garantire una forma di potere in un momento di decadimento e di frammentazione della autorità civile. Accanto ai beni posseduti direttamente dal vescovo ed a quelli infeudati a signori locali si registra la presenza di altre signorie laiche in lotta tra loro e con i primi per la supremazia.
Tra questi andranno lentamente emergendo i marchesi di Saluzzo sebbene, ancora nel duecento, essi appaiano subordinati ai vescovi torinesi [5].
Meno di un secolo dopo si verifica un fatto nuovo, la contessa di Saluzzo cede al Delfino di Vienne, come compenso per l'appoggio avuto in difesa del marchesato, tutto il saliente montuoso tra il Varaita di Bellino e di Chianale.
La penetrazione dei signori del Delfinato si consolida e si estende raggiungendo il controllo dei villaggi dell'alta valle (Bellino e Chianale) sino alla borgata Villa di Sant'Eusebio.
Tutto questo territorio è aggregato, col nome di "Castellata" alla "Contrada" di Briançon ed entra a far parte del Delfinato, del quale seguirà le sorti.
Un castello, eretto nel 1336 a monte di Sant'Eusebio, per ordine del Delfino Umberto II di Vienne dà il nuovo nome alla borgata che d'ora in poi sarà "Castrum Delphini" (Casteldelfino).
La più occidentale borgata di Sampeyre (Confine) ricorda ancora oggi con il suo nome il confine che ha tagliato per alcuni secoli la valle, separando la Castellata (Delfinato Cispadano) dai possedimenti del marchesato di Saluzzo. Estinta per abdicazione la dinastia dei Delfini nel 1349, subentra il potere dei re di Francia e le vicende della Castellata vengono così legate alla corona reale francese sino al trattato di Utrecht (1713) che sancisce la riunione della Castellata al resto della valle, da tempo in possesso dei Savoia [6].
La Valle Varaita, già funestata nel XVI secolo dalle lotte religiose connesse alla diffusione del culto calvinista [7] e nel XVII dalla grande epidemia di peste seguita alla guerra di successione per Mantova ed il Monferrato [8] , conosce nuove vicende belliche nel 1743 e 1744 quando le milizie gallo-ispane, nel quadro della guerra di successione austriaca, si scontrano a più riprese con i piemontesi sino alla battaglia della Battagliola (19 luglio 1744), ancora oggi ricordata con un monumento eretto sul luogo dello scontro.
Scaramucce di frontiera segnano l'avvento della Rivoluzione: il 28 fruttidoro 1794 (14 settembre) Pontechianale è saccheggiata dalle truppe francesi repubblicane.
Il secolo successivo registra il lentissimo sviluppo della società ed anche la valle ne risente gli effetti: lo stabilirsi delle prime industrie (a Piasco), la costruzione della strada di fondovalle dapprima sino a Sampeyre, poi (dopo il 1880) sino a Casteldelfino (Bellino e Pontechianale saranno raggiunte soltanto nei primi anni del 1900), la posa di una linea tranviaria da Saluzzo a Venasca (oggi smantellata), l'accrescersi del fenomeno dell'emigrazione, dapprima stagionale, poi definitiva, che segna l'inizio dello spopolamento della valle.
Le due guerre mondiali fanno registrare vuoti paurosi tra le classi giovanili mandate a combattere e morire su lontani fronti bellici.
La natalità crolla dopo la prima guerra mondiale, la mortalità sale continuamente (denunciando così il grave invecchiamento della popolazione residente).
I principali capoluoghi rinnovano la loro popolazione sostituendo agli emigrati famiglie scese dalle frazioni più disagiate alla ricerca di migliori condizioni di vita.
Sampeyre, Brossasco, Venasca costituiscono casi esemplari di questo tipo di ricambio della popolazione.
Fra il 1911 e il 1976 la valle ha perso circa il 59% della popolazione ma la misura dello spopolamento è molto diversa se si considerano separatamente l'alta e la bassa valle.
Il Comune di San Peire (Sampeyre) con la sua vasta estensione territoriale si presenta come un insieme quanto mai eterogeneo.
Dagli 800 metri dei confini con Frassino, la strada di fondovalle sale ai 1138 metri di quelli con Casteldelfino.
Alla grande vastità territoriale del Comune (99,89 kmq) non corrisponde una perfetta unità di insediamenti.
Se oggi l'abitato di Sampeyre vero e proprio può sembrare al centro del proprio territorio, non così fu in passato quando, pur nella omogeneità amministrativa, il Comune mostrava, assai più chiaramente di oggi, le individualità periferiche dei singoli centri abitati.
Di Sampeyre non si hanno notizie in carte anteriori al XI secolo, la sua fondazione risulta comunque essere molto più antica.
Il suo nome equivale a quello di San Pietro che nella lingua locale è detto San Peyre [9].
È nel XII e XIII secolo che si deve collocare l'intensa antropizzazione, nel comune di Sampeyre, della ampia conca che, dalla cima di Crosa al Colle del Prete, converge su Becetto. Ancora nel 1341 il marchese di Saluzzo infeuda terre incolte di Sampeyre a persone del luogo, mentre, alcuni anni più tardi, è il vescovo di Torino ad infeudare uomini di Sampeyre delle decime dei novali, derivanti cioè da fondi posti per la prima volta a coltura [10].
Sampeyre, centro di fiere e mercati, sede in passato di mandamento, impose - a poco a poco al territorio circostante il proprio ruolo accentratore esprimendolo anche con un sistema viario tendenzialmente radiale dove antichi percorsi, oggi quasi dimenticati, sono come i raggi di una circonferenza (Sampeyre - Misoun - Raie; Sampeyre - Becetto; Sampeyre - Morero; ecc.).
Questo accentramento è stato limitato dalla conformazione lineare della valle, che ha permesso la creazione di servizi decentrati lungo la grande via di fondovalle, presso centri secondari come: Rore, Villar e, in misura minore, Calchesio.
E non è certo casuale che la localizzazione dei primi due, più importanti, venga a situarsi sulla trasversale che congiunge alcuni fra i più frequentati colli della valle: Villar è come un nodo sul percorso Colle di Lucca - Colle di Elva, Rore era una tappa obbligata per chi transitava dal Colle del Prete al Colle Birrone e cioè dalla media Valle Po alla bassa Valle Maira.
Sono i colli che portavano le donne, durante la gravidanza, a S. Maria Delibera presso Dronero e i contadini, afflitti dalla siccità, alla Madonna dell'Oriente di Paesana.
In tempo di guerra il loro controllo poteva assumere un'importanza vitale: fu proprio il forte di terra battuta costruito dal Negro di Sanfront a Sampeyre nel 1588 ad aprire a Carlo Emanuele la via alla riconquista della Valle Po [11] .
Dopo l'otto settembre 1943 fu attraverso il Colle Birrone che decine di soldati sbandati riuscirono a rientrare in alta valle da Cuneo.
Lo spopolamento del XX secolo causato da una grande migrazione, mentre sacrificava le più disagiate frazioni, toccava dapprima in modo soltanto marginale i centri di fondovalle che recuperavano da monte ciò che perdevano a valle.
Nel secondo dopoguerra il fenomeno è stato più accentuato e drammatico.
Alla vastità del comune e alla forte dispersione abitativa corrisponde la presenza di un patrimonio edilizio veramente notevole.
L'attuale configurazione del capoluogo è il risultato di interventi aggreganti sui nuclei originari nel quadro di un'espansione, che è evidente e continua, soltanto a partire dal tardo seicento.
L'epidemia del 1630 aveva infatti segnato un punto di arresto nella vita della valle, facendo seguito a un decadimento che, dal punto di vista economico e culturale, era già iniziato con la fine del Marchesato di Saluzzo e con le continue guerre degli anni seguenti.
Il lento ripopolamento della valle ad opera sia dei sopravvissuti sia degli immigrati dalle valli vicine (Valle Maira soprattutto) diede nuovo impulso all'attività edilizia.
Si assistette ad una riutilizzazione delle costruzioni precedenti sia come rielaborazione degli ambienti sia come reimpiego di elementi architettonici medioevali usati come materiale da costruzione.
Con il '700, in concomitanza con un notevole incremento demografico, il numero dei nuovi edifici aumentò in modo considerevole.
Il motivo di maggiore interesse nello sviluppo urbanistico di Sampeyre in questi anni è dato dalla fusione dei centri di Piazza (Piaso), da una parte, e di borgata Gagliardi (Ro di Gaiart) e borgata Barra (Ro di Baro) dall'altra.
Il borgo di Piaso era stato, fin dal Medioevo, il centro della vita civile dell'abitato: qui sorgeva la Casa del Comune, qui c'erano le costruzioni di maggior prestigio.
Il centro religioso, rappresentato dall'attuale parrocchia dedicata a San Pietro e Paolo, era più a valle, nello spazio compreso tra Piaso e Ro di Gaiart.
È verso questo spazio che cominciano a convergere, in questo periodo, gli interessi della Comunità, è qui che si teneva il mercato, istituito nel 1582 da Enrico III, forse sospeso nel 1630 e ripristinato negli anni seguenti.
Sicuramente nella prima metà del settecento, come attestano i Bandi Campestri, qui sorgeva il "pellerino" (mercato coperto), quella costruzione ad archi con grande tettoia sotto la quale era ospitato il mercato e che si è mantenuta fino a non molti anni fa quando è stata abbattuta per la costruzione del nuovo edificio comunale.
Fu proprio la presenza del mercato in questo luogo, punto di incontro delle genti provenienti dai paesi vicini, che indusse, verso i primi anni dell'ottocento, alla sistemazione definitiva della zona in questione.
Con il trasporto del cimitero dall'area immediatamente adiacente alla chiesa al luogo attuale e con la delimitazione del lato meridionale della piazza ad opera di nuove costruzioni, si andò sempre più accentuando il carattere pubblico di questo luogo.
Continua intanto la lenta espansione di Sampeyre e nel periodo tra le due guerre mondiali l'erezione della centrale idroelettrica con il relativo bacino artificiale, primo pesante intervento sul paesaggio, porta alla saldatura delle borgate Dughetti e Palazzo.
Dopo la seconda guerra mondiale lo sviluppo edilizio legato alla nascente industria turistica porta ad un ampio sviluppo del paese con conseguente unione al centro delle borgate Martini e Palazzo. A parte questi interventi sulla periferia del complesso urbano, indici di uno sviluppo irrazionale e disorganico, preoccupante è soprattutto la lenta disgregazione del tessuto dell'antico borgo ove ristrutturazioni di edifici in pieno centro storico hanno spesso causato perdite irrimediabili

[12].

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Fig. 2. La Valle Varaita in una carta del 1704.
Tratta da J. Bernard, Nostro Modo testimonianza di civiltà provenzale alpina a Blins (Bellino),
Sancto Lucio de Coumboscuro (Cn), Coumboscuro Centre Provençal, 1992, p. 179.

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