1.    I piloni votivi nel Piemonte sud-occidentale e nella Valle Varaita.

 

Padre Fiorenzo Silvano Cuman[1], analizzando le edicole sacre presenti nel territorio Veneto ne definisce la natura e gli scopi. Egli sottolinea come queste, nate come simbolo di devozione sia privata che pubblica, siano sorte in un primo tempo per delimitare le proprietà e proteggere il territorio; in seguito, dopo lo spopolamento della campagna, spostate sulle facciate o sui portoni d’ingresso delle case, esse siano diventate simbolo di protezione, fede e devozione, tipiche dell’arte popolare che da sempre ha fatto riferimento a tradizioni antichissime. La stessa fiammella, che ardeva davanti all’immagine sacra, rimanda alle statuette dei Lares e Penati della domus romana.

Padre Cuman, studiando il motivo della loro erezione, evidenzia come tali edicole votive siano state per la maggior parte costruite come ex-voto in seguito a qualche evento miracoloso (un’epidemia cessata, un’avvenuta guarigione, ecc.), e ricorda che, spesso, molti santuari sono sorti sui luoghi dove in precedenza c’era un pilone.

Il discorso di padre Cùman sulle Edicole sacre venete può essere valido anche per i piloni del Piemonte sud-occidentale e, più in particolare, per quelli della Valle Varaita. Essi costituiscono il punto di riferimento di una devozione strettamente locale, limitata ad una o più famiglie che abitavano nelle immediate vicinanze. Queste opere sono state realizzate per volere di privati, senza il controllo da parte di qualche autorità, il che determina la totale mancanza di documenti, presso gli archivi comunali e parrocchiali.

I piloni appaiono realizzati al di fuori di forme alte di progettazione urbanistica ed architettonica, tuttavia attingono dal territorio una certa dignità formale che contribuisce a conferirgli un’identità culturale.

Per meglio comprendere perché venivano edificate strutture votive come i piloni bisogna risalire al tempo in cui le popolazioni che abitavano il Piemonte sud-occidentale non avevano ancora subito alcuna forma di latinizzazione e questi luoghi non avevano ancora conosciuto il cristianesimo.

Queste terre, antropologicamente, sono di origine celto-ligure[2]. Su questo popolo non si hanno dati approfonditi ma esso sicuramente aveva un’organizzazione sociale, una vita comunitaria e delle convinzioni religiose, che hanno lasciato segni notevoli sulle origini dei piloni. In essi è possibile cogliere i retaggi di anteriori culti politeistici che risolvevano i misteri dell’umana esistenza con una miriade di ritualità e di simboli apotropaici che accompagnavano l’uomo dalla nascita fino alla morte.

La pregnanza di questo simbolismo doveva però essere così forte, da coinvolgere l’intero inconscio collettivo, e le tracce di esso, tramandateci attraverso le generazioni ed i secoli, possono essere riconosciute in alcune usanze presenti nella cultura della popolazione della Valle Varaita[3]e delle valli limitrofe[4].

Anche la montagna, di per sé simbolo carico di sacralità e mistero per la sua natura imponente ed imprevedibile, è stata di certo un’attrattiva per l’uomo che la vedeva come luogo che lo avvicinava al mistero della divinità e per questo motivo ha cercato di trasformarla in luogo di culto e preghiera, mantenendo sempre un atteggiamento di grande rispetto.

Il pilone come oggi lo intendiamo, punto di preghiera, luogo privilegiato per il dialogo con la divinità, trova una diretta ascendenza in quei “segni” che l’uomo fin dalla più remota antichità ha scelto per designare un punto particolare considerato sede di manifestazione sovrannaturale del sacro. Questo poteva essere identificato in un qualsivoglia aspetto della natura, un albero, una fonte, un masso. In altri casi era la particolarità del luogo stesso, un passaggio difficile tra i monti, un guado pericoloso, una delimitazione territoriale, a richiedere in quel punto la presenza della divinità a tutela degli atti compiuti dall’uomo. Segni tangibili di venerazione contraddistinguevano questi particolari siti: incisioni sulle rocce, raffigurazioni della divinità invocata, altari più o meno elaborati.

Tutto ciò potrebbe giustificare la presenza di croci e cappelle sulla cima dei monti e sui colli principali; ma prima del cristianesimo, quando la croce non era un simbolo cristiano e non aveva alcun riferimento al significato che noi oggi le attribuiamo, l’abitante della montagna cercava di rendere l’ambiente in cui viveva più “sacro” incidendo sulle rocce figure delle quali raramente conosciamo il significato, come le coppelle o le varie composizioni antropomorfe (Monte Bego[5] o Col Rastel in Valle Varaita); egli erigeva (ed erige) le famose “mongioie” (mons iovis) cioè, quei cumuli di pietre accatastate a colonna, che ancora ai giorni nostri possiamo incontrare su qualche sentiero di montagna.

Le credenze religiose della popolazione che abitava la zona vennero in gran parte assimilate dalla successiva conquista romana: gli antichi luoghi di culto furono sostanzialmente conservati mentre alle divinità preesistenti si affiancavano e si sovrapponevano quelle del mondo classico.[6]

Il successivo processo di cristianizzazione, attestato in Piemonte a partire dal IV secolo ma ultimato solo molto più tardi soprattutto nelle campagne e montagne, portò alla trasformazione di molti degli antichi luoghi di culto in centri della nuova religione. Testimonianza di questo atteggiamento è l’Epistola (XI, 56) inviata dal papa Gregorio Magno (590-604) all’abate franco Mellitus, in cui consigliava di non distruggere i templi pagani ma di cristianizzarli.[7]

A partire dal VI secolo, quindi, una delle politiche più usuali ed efficaci adottate dalla Chiesa nei confronti di credenze, cerimonie, divinità e luoghi di culto pagani fu il tentativo di sovrapporre il Cristianesimo al Paganesimo, l’adorazione del vero Dio all’adorazione delle antiche divinità.

In molte regioni d’Europa, dolmens, menhirs, statue-stele, rocce recanti incisioni non cristiane (coppelle, canaletti, vaschette), miliari romani, mostrano di aver subito una sorta di “cristianizzazione” mediante la giustapposizione o sovrapposizione di una croce, un pilone, una statua o una cappella, o con l’inserimento in un tabernacolo oppure nell’impianto di una chiesa.

Le tracce archeologiche e toponomastiche, le tradizioni e leggende presenti in molte aree del Piemonte, suggeriscono spesso una certa continuità di insediamento tra il tempio o il luogo di culto  pagano e l’edificio cristiano primitivo (a Canischio (To) l’oratorio alpestre di S. Bernardo di Mares sorge al centro di una zona ricca di rocce incise[8]).

Durante l’Impero Romano anche le Valli Cuneesi, di cui la Valle Varaita fa parte, vennero evangelizzate; promotori furono i vari Santi locali come San Dalmazzo[9], che subì il martirio sulle rive del Vermenagna il 5 dicembre 254. Successivamente sorsero importanti monasteri, centri oltre che religiosi anche economici e sociali, come l’Abbazia di San Costanzo in Valle Maira, quella di Pagno in Valle Bronda, e ancora quella benedettina di Pedona (l’attuale Borgo San Dalmazzo). Il X secolo vide la minaccia dei Saraceni[10] che devastarono e saccheggiarono le montagne e le zone pedemontane delle Alpi Occidentali, specialmente i luoghi sacri, ricchi di tesori d’arte e di beni alimentari. Cacciati i Mori i centri religiosi rifiorirono e accrebbero di numero, testimonianza di questo evento furono le abbazie cluniacensi, cistercensi e certosine che nei primi secoli dopo il Mille sostituirono i monasteri benedettini (Abbazia di Santa Maria di Staffarda, 1130/35, Certosa di Chiusa Pesio, 1173 e di Mombracco, 1282)[11].

Le Alpi[12] non costituirono mai una barriera: le percorrevano mercanti, uomini d’arme, artisti, religiosi e pellegrini attratti da fiere, commerci e celebri santuari[13]. Iniziarono in questo periodo i grandi pellegrinaggi che videro numerosi fedeli spostarsi da nord verso Roma, capitale della cristianità e da sud verso la tomba di San Giacomo di Compostela. Vennero frequentate mete anche meno celebri al grande pubblico come, nelle Valli Cuneesi, il Santuario Mariano di Becetto[14] in Valle Varaita, di San Chiaffredo in Valle Po, di San Magno in Valle Grana, di Sant’Anna di Vinadio in Valle Stura[15]. Nacquero così importanti costruzioni per accogliere i pellegrini, sentieri e mulattiere per raggiungere questi luoghi di culto, tradizioni e leggende per renderli famosi.

I piloni come segni di culto hanno spesso preceduto l’erezione di una cappella o di una chiesa di maggiori dimensioni. Un primo passo della trasformazione di un pilone da una forma semplice ad una forma più complessa può essere colto in quei piloni nei quali la fronte del tetto che sovrasta il timpano si allunga a coprire la strada od il terreno antistante (Sampeyre, Borgata Barra, “Piloun Ro[16] di Baro”): si viene così a creare uno spazio di rispetto che, successivamente delimitato da opere murarie, darà origine al vano di una cappella mentre il pilone con la propria mensa ne costituirà l’altare.

L’aumento della devozione popolare ad un pilone e un sempre maggiore coinvolgimento di fedeli conduce inevitabilmente alla erezione nello stesso luogo di un edificio religioso di maggiori dimensioni: questo può determinare la distruzione totale del precedente manufatto o la sua conservazione in posizione laterale. Alcuni esempi del primo caso sono documentati nel comune di Sampeyre nella cappella di Santa Delibera della frazione di Morero Superiore[17], nella cappella della Madonna della Neve della frazione Colletto[18], nella cappella di San Claudio a Sampeyre[19]. Si tratta di situazioni legate soprattutto all’aumento della popolazione di una borgata che impone, per motivi devozionali, di praticità e di prestigio nel confronto con i centri vicini, la costruzione di una cappella per poter celebrare con maggiore dignità le funzioni religiose.

Quando l’aumento della devozione è legato ad una particolare immagine ritenuta dispensatrice di grazie dipinta su di un pilone questo viene conservato ed inglobato nell’altare maggiore della nuova costruzione; esempi di questo tipo sono frequenti nella grande maggioranza dei santuari.[20]

 

 



[1]

Fiorenzo S. Cùman, frate cappuccino del Morgnan, originario di Marostica, si è dedicato allo studio e alla conoscenza dell’arte popolare Veneta. È autore di diversi libri sulle Edicole Sacre di questa regione.

F. S. Cùman e P. Fabbiàn, I capitelli di Venezia: arte sacra minore in Venezia, Catalogo fotografico, Venezia, Helvetia, 1988. F. S. Cùman, Carole, i suoi “capitei” e le sue chiese, Vicenza, La Grafica & Stampa, 1988. F. S. Cùman, I capitelli di S. Antonio di Padova: fede, storia, arte, Padova, Centro studi antoniani, Marostica (Vi), IRSEPS, 1989.

 

[2]

R. D’Amico, Val Varaita insolita, Torino, Clypeus, 1992, pp. 10-18 e pp. 23-45. id., L’anima segreta della Valle Varaita, viaggio insolito alle radici della storia tra reperti archeologici, simboli, miti e leggende, in “Quaderni di Cultura Alpina”, Ivrea (To), Priuli & Verlucca , 2000, pp. 8-32. A. De Angelis, Note di preistoria della Val Varaita, in “Novel Temp” n°14, Sampeyre (Cn), Associacione Soulestrelh, 1980, pp. 35-44. M. T. Grassi, I Celti in Italia, Milano, Longanesi, 1991. P.C. Jorio, In principio era la pietra. Matrici preistoriche della cultura pastorale alpina, Torino, EDA, 1982. J Markale, I Celti: storia e leggenda di una civiltà, Milano, Oscar Mondatori, 2001, (traduzione dal francese di Renata Carloni Valentini). E. Percivaldi, I Celti: una civiltà europea, Milano, Giunti, 2003. R. Place, I Celti, Milano, A.Vallardi, 1982. M. Riemschneider, Miti pagani e miti cristiani, Milano, Rusconi, 1973, (traduzione dal tedesco di Aldo Audisio). Id., La religione dei Celti, Milano, Società Editrice Il Falco, 1979.

[3]

 Tracce di paganesimo si possono riscontrare in fiere, feste patronali, danze, credenze, leggende e consuetudini culturali. In Valle Varaita, residui di riti pagani si possono cogliere in alcune feste primaverili come la Baio di Sampeyre, la processione della Fouassa di Melle, in alcune usanze funebri, oggi scomparse, come il pianto funebre, l’offerta delle uova ed in preghiere di invocazione al sole. J. Bernard, Nostro Modo testimonianza di civiltà provenzale alpina a Blins (Bellino), Sancto Lucio de Coumboscuro (Cn), Coumboscuro Centre Provençal, 1992, pp. 53-57. G. Boschero, Per far sorte lou  soleil, in “Novel Temp” n°5, Sampeyre (Cn), Associazione Soulestrelh, 1977, pp. 47-50. P. Capobianco, Alcuni aspetti magico-religiosi del Carnevale, in “Novel Temp” n°10, Sampeyre (Cn), Associazione Soulestrel, 1979, pp. 9-24. Id., La processione della Fouassa, un sincretismo religioso a Melle, in “Novel Temp” n°14, Sampeyre (Cn), Ass. Soulestrel, 1980, pp. 10-13. R. D’Amico, Val Varaita insolita, Torino, Clypeus, 1992, pp. 35-44. A. De Angelis, Usanze funebri della media Valle Varaita: Rore e Frassino, in “Bollettino della Società per gli Studi Storici Archeologici ed Artistici della Provincia di Cuneo” n° 77, 1977, pp. 79-89.

[4]

C. Andreis, Abbadie in Val Maira, festa e comunità, Cuneo, Centro Studi ed Iniziative “Valados Usitanos”, 1981. S. Garnero, La memorio de la Val Mairo: civiltà, vita e cultura a San Damiano e Valle Macra: i protagonisti ricordano, Dronero (Cn), Coumboscuro Centre Prouvençal, Il Maira, 1998, pp. 25-34, 54-56, 101-102. E. Milano, Dalla culla alla bara: usi battesimali, nuziali, funebri nella provincia di Cuneo, Borgo S. Dalmazzo (Cn), Bertello, 1973, p. 126.

 

[5]

E. Bernardini, Monte Bego: storia di una montagna, Pinerolo (To), Tip. G. Alzani, 1971.

[6]

In età romana lungo le strade erano eretti piccoli sacelli dedicati a Mercurio, protettore dei viandanti, talvolta accanto od in sostituzione dei cumuli di pietre utilizzati per segnare il cammino secondo un’usanza ancora oggi diffusa. Agli incroci stradali sorgevano altari dedicati ai Lari, gli spiriti degli antenati, protettori della casa e delle proprietà della famiglia in onore dei quali erano celebrate nel mese di febbraio feste campestri dette Compitalia. In seguito la funzione protettiva dei Lari venne assunta da Silvano, il dio dei campi; altra divinità invocata era il dio Terminus protettore dei confini. Cfr. A. De Angelis, La sacralizzazione del territorio: croci, piloni, cappelle. Gli esempi della Val Varaita, in Atti del convegno: Segni della religiosità popolare sulle Alpi Occidentali, promosso dal CAI a Susa il 13-14 settembre 1997, p. 125 nota n°6).

[7]

 Sull’epistola si rimanda a M. Rossi, Religiosità popolare e incisioni rupestri in età storica, in “Orco Antropologica”, 1, Courgnè (To), Corsac, 1981, pp. 11-12, e ad A. De Angelis, La sacralizzazione cit., pp. 110-111.

[8]

 M. Rossi, Religiosità popolare cit., pp. 15-19.

[9]

 A. Ponso (a cura di), I Santi della “Granda”, Savigliano (Cn), L’ Artistica, 1999, pp.42-43.

[10]

 C. Bocca, M. Centini, Saraceni nelle Alpi, storia, miti e tradizioni di una invasione medievale nelle regioni alpine occidentali, in “Quaderni di Cultura Alpina”, Ivrea (To), Priuli & Verlucca , 1997, pp. 14-31.

[11]

L. Botta, F. Collidà (a cura di ), CN Cuneo la provincia granda, Cuneo, Grandapress, 1990, pp. 58-67.

[12]

 V. Comoli, F. Very, V. Fasoli (a cura di), Le Alpi, Les Alpes, storia e prospettive di un territorio di frontiera, Torino, CELID, 1997, pp. 17-35. L. Dematteis , Alpinia 2: le Alpi e la loro gente, in “Il tempo delle Alpi”, Ivrea (To), Priuli & Verlucca, 1994, pp. 81-131. P. Guichonnet , P. Gabert, Les Alpes et les états alpins, Paris, Presses Universitaires de France, 1965. (Collana, Magellan: la geographie et ses problemes). P. Guichonnet (a cura di), Storia e civiltà delle Alpi, Milano, Jaca Book, 1987, 2 voll.).

[13]

 C. Bocca, M. Centini, Le vie della fede attraverso le Alpi dall’arduo cammino degli evangelizzatori e dei pellegrini ai tormentati percorsi degli eretici, in “Il tempo delle Alpi”, Ivrea (To), Priuli & Verlucca, 1994, pp. 11-85. F. Testa, Luoghi di devozione nel territorio alpino, in Le Alpi, Les Alpes, storia e prospettive di un territorio di frontiera, a cura di V. Comoli, F. Very, V. Fasoli, cit., pp. 479-489.

[14]

L’attuale chiesa di Becetto, dedicata alla Natività di Maria, fu costruita nel 1200/1201 dal capomastro Girardo Garzino e da Giovanni Garnaldo su iniziativa del pievano di Falicetto. Le motivazioni che spinsero a ciò furono dettate dalla necessità di assicurare il servizio religioso per le sempre più numerose famiglie della zona per le quali era disagevole raggiungere il sottostante borgo di Sampeyre (A. De Angelis, Rore paese della Val Varaita, Rore (Cn), “Lu Viol”,1983, p. 17) In seguito ad una lite tra l’abbazia di Rivalta Torinese e quella di Fruttuaria Canavese nel 1211 la chiesa di Becetto passò ai canonici regolari della prima e infine ai cistercensi di Staffarda. Nell’edificio si conservava una statuetta della Vergine bruna, come quella di Oropa a cui il Santuario era collegato come meta di pellegrinaggio, di cui resta la scritta “Nigra sum sed formosa”. La devozione alla Madonna Nera di Becetto, ancora in pieno fervore nel 1600 venne smorzandosi nel 1700, con la soppressione dell’abbazia di Rivalta (1746) e con il passaggio alla diocesi di Saluzzo. (M. Perotti, Repertorio dei monumenti artistici della provincia di Cuneo, Cuneo 1980, volume 1a/1b/1c, quaderno n°32, pp. 329-330. A. Ponso (a cura di), Guida ai Santuari Mariani del Saluzzese. Arte- Storia- Devozione, Cavallermaggiore (Cn), Gribaudo, 1992, pp. 190-191. P. Ansaldi, Cenni di storia di paesi e chiese della Diocesi e Marchesato di Saluzzo, seguendo le orme dei Vescovi, Cuneo, ATEC, 1968, pp. 42-44).

[15]

A. Ponso (a cura di), Guida ai Santuari della Granda, Boves (Cn), Corall, 1998, pp. 143-144. G. Musso, Mille anni con Sant’Anna di Vinadio, in “Quaderni di Primalpe”, Cuneo, Centro di documentazione Comunità Montana Valle Stura, 2000, pp. 11-80.

[16]

 Tra la gente del posto è usanza definire la borgata con il termine in lingua locale “Ro ”, anche se nei dizionari di lingua locale si incontra il termine “ Rüà” (voce “Rüà” a cura di C. di Crosa (C. Rabo) in Ricerca di un metodo pratico cit., p. 111. G. Boschero in Rore cit.,  p. 100).

[17]

 La cappella è ricordata fin dai primi anni del 1700; qui in seguito a lavori di pavimentazione sono tornate alla luce, nell’area del presbiterio, le fondazioni dell’antico pilone.(G. Ricchiardi, A. De Angelis, A. Salomone, La chiesa parrocchiale cit., p. 56).

[18]

 La cappella sorge a 1611 m.; venne costruita nel 1822 in seguito al ritrovamento in quella zona di un’antica pietra di marmo scolpita con l’effige della Vergine con in braccio il Bambino. I parrocchiani di Villar di Sampeyre consigliati da don Falco Amedeo parroco di Sampeyre, collocarono la pietra in un oratorio (“pillone”) e in seguito nel muro della cappella. (Saluzzo, A. V. Visita pastorale del Vescovo Giovanni A. Gianotti in Valle Varaita negli anni 1840-41, f. 125 r.)

[19]

La cappella (probabilmente non l’attuale) dedicata a San Claudio e San Giuseppe è nominata fin dal 1630 e ricordata nelle visite pastorali del 1732 e 1746. Nell’Ottocento l’edificio era in rovina e verso la fine del secolo (1893) venne ricostruito sull’area di un antico pilone. (G. Ricchiardi, A. De Angelis, A. Salomone, La chiesa parrocchiale cit., p. 59. Sampeyre, A. S. P. Cartella 35 Unità 4).

[20]

Un esempio in Valle Varaita è il Santuario della Madre della Misericordia di Valmala (1851). L’attuale Santuario incorpora sia il primitivo pilone fatto erigere nel 1835 da Giuseppe Pittavano padre di una delle veggenti e affrescato da Giuseppe Gauteri sia la cappella che lo seguì, eretta nel 1840. A. Ponso (a cura di), Guida ai Santuari mariani cit., p. 220.

 

 

 

 

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